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Caro Rosario,
t’avrei affettuosamente portata con me alla festa ieri sera, ma ho sentito bisbigliare che nell’alta Finanza le persone hanno paura dei gomiti. Sai, cominciano sempre col dire che è disdicevole tenerli poggiati sul tavolo, e io conosco bene il tuo modo di altalenare le posate dall’alto, tutta sporta in avanti con le mani al naso. Oh, e il tuo modo d’imbronciare i fianchi lasciando i gomiti aperti per quasi cinque minuti! Rosario, li avresti infastiditi, alcuni intimoriti. Poteva accadere che qualcuno che non conosci eppur pago di lesta conversazione ti fasciasse il cinto accompagnandoti a sedere e tu avresti abbandonato la camminata scrollando il gomito sul suo fianco. Come quella volta da Lamberto, ancora lo raccontano le signore agli incontri del giovedì.
Non t’avrei chiesto di rinunciarti, una volta avventata che lo feci, quando ci costrinsero al nero, ricordo il tuo amabile biglietto di diniego: “Certamente metterò il pitonato.
Sarò sempre fuori luogo, amore mio, te lo prometto”.
Questa volta ho agito acché non accadesse c’avessero altri racconti.
E così oggi mi dispiaccio infinitamente di aver trovato il mio tailleur di lana tutto a brandelli nell’insalatiera.
Ti ringrazio perlomeno di non averlo condito con aceto, che sai non piacermi.
Sicuramente, amore, sei però una donna fedele alle sue promesse.

Ph Martina Rossi

Ph Martina Rossi
Sempre, sempre torno
agli arbusti dubbi, mediocri.
Che per tutti stabilisca un esperto di botanica
quale pianta o albero io sia!
Guardandomi eretta da lontano
direste di me lo snello cipresso del sentiero
o l’agave spinuto, ricciuto che al nome
esile confonde l’invenzione degli aspetti?
Le dita poche
sono gli ultimi rametti da spezzare
lungo i vostri cammini pensierosi
o le vermene d’ulivo da ossequiare quand’è ottobre?
Se mi dicessi, esperto di botanica,
pollone non indugerei a
stenderle alle tue competenze
e vedere rossa la cesoia.
Ma se fossero invece dardi
o mazzetti di maggio potrei allora fiorirvi presto
e poi sarebbe il frutto dalle mie mani.
Vorrei essere blu mirtillo della tundra
e tu non mi dirai tradescanzia della miseria
che cala dai tetti d’un qualunque
amore finito.
M’ha già avvilito questa naturale
indagine e quasi non ho più voglia di
ascoltarti nelle tue perizie:
“Hai giù saltato quattro fioriture:
non saprà che di rimpianto
la tua buccia, il tuo nocciolo ”
Vuoi ancora per me questa condanna,
non saper rispondere a chi m’interroghi
sulla mia fotosintesi tra sangue
e conoscenza?
Cerco i fiori di pesco sui capezzoli,
sulle spalle i giunchi del canale di campagna
nespole e ciliegie sugli occhi
ortica sulle braccia sulle gambe sulla lingua.
Dimmi delle radici, a quale
bioma genealogico firmamento di legno
sottoinsieme di terra franata e acqua ritratta
appartengo?
Io che sento addosso il verde ventoso
ma non so chiamarlo se non col nome
d’amore di Gramigna.

Ph Martina Rossi
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