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Sarà quell’oggi, dico, il giorno
per scordarti padre e scordarti madre:
il tempo è caduto e ha
perduto il linguaggio, è caduto
e ha perduto colostro dal lobo.

“C’erano una volta due polsi,
uno a destra e uno a sinistra
o forse al contrario uno a sinistra
e uno a destra”: il tempo è caduto
senza perdersi in chiacchiere.

La gonna tartan dagli alluci
si ferma bambina alle ascelle
che di solito non piacciono alla poesia:
i nomi della carne non li ha inventati un poeta
o li ha inventati un poeta. Nei casi uno e due,
mia madre non sa a cosa mi riferisco.

“Ma allora sono stati gli specchi
a confonderti le direzioni!”
-l’hanno detto almeno sei volte
senza farfugliare destra e sinistra e viceversa.
A confonderti nelle passioni!

Nel terremoto di quell’anno di seta
scivoloso, impalpabile, le clavicole
erano crollate e insieme
le pareti di pelle. Ho preferito
comprare uno specchio da
appendere sul pavimento.

Allora ho fatto presto a gattonarci
sopra per convincere tutti che
il mio riflesso aveva ragione.

 

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Ph Alice Massone
Disse, passante: “le strade sono due:
o guardi il cielo o non lo guardi
o parli ai morti o non ci parli.”

Mia madre coi capelli di prugna
fermò la sua passeggiata e rivelò
in una via Carlo Poerio inventata:
“delle caramelle ha paura
chi pretende la vita. La vera premura è
non imparare a camminare
da chi vede soltanto due strade.

Hai mai visto il cielo da una pozza?
Regala forza anche a un capo chino.
Hai mai parlato col fantasma di un bambino
negli occhi di un pittore desolato?

Allora, s’avrai capito bene, non passerà
tempo per contare le strade, per prestarti
tra il cielo e la morte. S’avrai capito bene,
aprirai nell’aria tutte le porte.

Conosci il contrario della strada?”
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Ph Martina Rossi
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Che mi dici ora
di quelle bugie sull’arte
dell’aversi? Eravamo persi
sull’eremo solitario
abitandolo, a caso, come
il nostro Parnaso.

Ho esercitato possessioni,
overture di barbiturici,
applausi medici alle ingiurie
cercando di vestire meglio la mia
parte: che mi dici delle illusioni
sull’arte della recitazione
come istinto animale: annegare
nel tuo personaggio senza nemmeno
leggermi nel copione.

“Musa con museruola”
film diretto da nel candidato
al premio miglior scomparsa
golden globo extra-rupestre:
sono scivolata dall’arrampicata
nella società di belle promesse.

Usare il verbo all’infinito
non allineandocelo addosso
e dunque “ispirare” è più saziabile
che “io ispiro”: è dunque più realista
il distacco tra le parti  che il distacco
dai tuoi scarti.

Ma io ti ho salvato e ho scritto
un nuovo finale che dovremmo
leggere insieme, leggendolo così:
“ormai sto da tempo con un pittore
che m’ha promessa in quadri,
eppure non mi sento al sicuro:
immagina, amore mio,
la muffa nelle ossa
a restare appesa al muro”


                               (non sono poesia
                               sono solo restauro)
Vasa vasorum
o anche degli eccessi
Qualunque indagine sulle mie vene
finisce col perdere spazio
iniziando col prendere spazio:
hai consumato tutto nel mio magazzino
interno verticale, “è aperta la cassa n.2”
 –toracica non lo dissero
all’altoparlante: non avevi
più cosa pagare.

La galera dell’umore
mi siede con busto villano – ma
io sono l’uccellino azzurro della felicità
e non conosco postura.

La galera dell’amore
sono io e la mia pletora di sangue:
la febbre, la pancia, gli schiaffi,
la bile, il fuoco, la terra, la testa
-troppo ristagno nella mano destra.
Inumidita d’aiuto ti guardo dal basso
t’ho detto “Vedi, tutto il mio sangue ci
fruga la pelle.” Hai detto di spalle
“Praticate il salasso!”
nella mia ora di libertà.

Fuori dal quadrato di Scicli


 

 

 

 


 

 

è la nostra condanna: seduti
sui gradini della chiesa
a descrivere miseria.

Le mie ginocchia morbide scricchiolano la strada
seppure nessuna processione; immobili;
le tue chiassose mascelle stendono la pelle
seppure nessuna parola; sconquasso;
seppure ci siamo interrotti, dopotutto.

amici che ballano stretti
la musica abbuia la pietra;
due esiliati di luglio: chi ci racconta
ormai le bruciate spighe, il sangue
che nemmeno straripa le dighe
nelle metafore?

​

(a Francesco)

Quella virtù che mi tempesti alle orecchie
d’un morale coraggio di perdersi,
saper disporre della volontà verso il bene
in anacoretici dinieghi improvvisi
che non sono virtuosi eppur sempre voluti.
Nel tempo d’un tempo in silenzio
come una notte ostia della conciliazione.
Se nel tempo io dico che dirti è salvezza
tu dici che dirmi è proprio salvezza,
che all’etimo parla di solitudine
che dell’etimo io non volevo parlare.
E solo scrivere è per me la virtù dell’aver perduto
e l’arte di saper ritrovare.

Renato peripatetico

Se tu potessi passeggiare
                             attorno
all’atrio porticato
con le braccia arretrate
           -e quelle tue canzoni-
per sempre,
per sempre
saprei dov’è girovago
il buco mio poietico.

 

(e se tu fossi l’umano colonnato
passerei il tempo ch’è passato
a riabbracciarti in tutte le tue rime,
in ogni tuo solcato.)


 

Se allora tu ti mostri gentile,
io so dove colpirti:
sull’asse obliquo del tuo viso
s’appunta il mio maligno vuoto.
-forse confondo il mietitore
col mietuto.
Ma se allora tu ti mostri aspro
-e io so dove vuoi colpire
nell’asse convesso di questa mia
                               dolcezza
risorgono i vermi dell’esasperato
-hai confuso la tortura tutta
col solo torturato.
Non carezzo il silenzio
o lo presento sul vuoto palco
-manca il lessico dell’uditorio:
blu.

“… … …”
“… … …”: sono i versi meglio riusciti
d’ogni mia prestazione in cui
manchi lo scroscio di pioggia.
Silenzio! M’affloscio
                                
                                 nel silenzio,
m’ammoscio, ricresco.

Camminarmi sul seno non è cosa
leggera se non sai dove calcare
per l’asfissia. Perché la bambina
dentro di me non può morire, morendo.

Tesseva una trama tra Violetta
e Martin che di mestiere faceva
il pescatore, per poi scantonare alla tristezza
che di mestiere fa la lampionaia.

“Shh. Shh.
Shh, shh”: sono i versi meglio usciti
se carezza il silenzio la mia solitudine plateale.
-manca il lessico dell’uditorio:
tu.

(questa non è ancora poesia,
non ancora lo è fin quando
non esco di scena. Fin quando
non sono l’o-sceno)

 
La sezione del gluteo che preferisco
non esiste, non esiste pianura
per pellegrini, al contrario vette iraconde
nessun autentico baglio che dichiari le sponde
del triste fluire.
Non esiste cellula cieca che dica
dove sedere se tanto
poggio le spalle, arpioni alle ossa,
ho perso parole di pelle.
e  il pensiero
commuove
e mi stanca.

Seduta n.1: l’ultima.
Ho una cosa.

 

Dottore, mi scusi, nel dirle mi affretto
è la fretta che ha fatto:
avevo un peletto negli occhi
e me li sono cavati.
Come potrei conservarli?
Dottore, mi scusi, nel dirle mi affanno
sono i giochi bugiardi che fanno:
con questo freddo ho preso l’assenza
come farla passare?
Dottore, davvero, mi scusi l’affanno:
che fanno quelli che han sonno di giorno
e la notte soltanto fanno l’amore
per sporcare lenzuola altrimenti inconsunte,
non unte di vita: la notte non è più buia
di un giorno malato.
Dottore, mi scusi, non so se l’ha visto,
ma ho le gambe in mano. Le avevo segate
dopo cinque serate passate a segarmi
la mente, in piedi e in ostaggio,
come a maggio dei fiori che annaffi a settembre,
scordati nel tempo: li tengo nel grembo
questi passi mai nati e poi svengo.
Un aborto in un porto di vergini intenti,
non so se li senti, dottore.
Dottore mi scusi le noie che do
mi han detto che vogliono me ma senza le ovaie
che rendono isteriche le braccia che abbraccio, che abbracciano me.
Ma io slaccio i seni pesanti davanti a tutti
e lascio vedere quei segni distrutti
di un utero che sanguina vuoto.

 

       

Dottore, allora, cos’è questa cosa che ho,
mi scuoto da tempo d’un tardo avvenire,
che non so cosa dire
a chi mi chiede:“cos’è?”

 

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Ph Martina Rossi
Rifugio la mia felicità
tra le spine cresciute
sulle dita che sanguinano il tempo della poesia.
"E tu, dimmi, di cosa ti occupi?"
I tormenti riposti fecero il loro
debutto al tonfo della clessidra
e come d’abitudine bagnai le labbra
asciutte, rubai spazio:
“per cosa, invece, tu usi la vita”?

"Ho polsi incravattati e un’agenda
più che giornaliera che mi ricorda
dove andare per difendere i contusi
e chi fa ammenda dei propri peccati."

(come sarebbe cambiata la mia risposta
se altrettanto composta si fosse detto:
“di lampeggiare il faro del porto
 all’ora della cena”)

Allora risposi per le rime
ma senza rime:
disarma il pensiero architravato
dell’ubriaco quando racconta
che la strada è stata solo strada
fin quando non è inciampato.
Allora fu lago, inginocchiatoio
e morbida e bagnata
la strada non più esiste.

"Io mi occupo di
tutto ciò che resiste
tra le vostre parole
e le parole di un dio."
Poesia non preme più le anche
evita fratture, rifugge i duri morsi
alle mani, silenzia ologramma brama
che si ritrovi del dramma mimesi
e catarsi.

Non raccolgo più delle parole
la spigolatura tra i denti,
“io vi prego santi de la misera corda
stringetela forte che mi tornino i sensi,
altrimenti dee della fulgida parola
prendete, s’è così, la mia anima sorda”

Come quando smisi di sognare nella notte
e il mio maestro d’arte
mi suggerì di disegnare il carciofo di Neruda,
io lo delusi disegnando proprio
un carciofo.

“Hai solo tre anni per scrivere! Solo tre anni di
migrazioni rivoluzioni forconi ABBA CDE”
devo aver perso questa raccomandazione
e ora aspetto la gratitudine delle macerie.

Non chiuderanno il mio manicomio
fin quando le sue braccia saranno aperte
e io sogno di morire con le spalle
sull’alto muro dei nembi dove piove il poeta.

La Poesia si consuma a
tormenti dall’inizio alla fine,
e manca ormai la santità
per meritare il demonio.
Sui timpani cantierano
le voci del popolare grido
attrito sibilo grugnito eterofagia
impacchettamento di secrete idee.
La Poesia è morta! E io l'ho
appena uccisa
: precisa la
nutrice d'ogni gemita parola
che essa proprio allora
dalla morte nasce sulla carta.
I pensieri ciangottano
e salgono in croce
nel luogo del cranio,
ovvero il calvario.
Una dentale e una
labiale consonano
la nostra trama palatale.

(E se il cavo fosse invero plateale?
E se a creare l'assonanza fosse il
verbo canzonare?

Rimarrebbe della trama
di salive -una frana.)

t,
m.

Lieve poesia d’amore
 

Di cosa si sazia il pazzo
-che tu chiami pazzo
invitato alla cena del Signore
-che mai fieramente chiamiamo Signore?

Io dico:
Se può camminare, non verrà da noi.
Se può essere camminato, non accetterà di vederci.
Se sa ancora dormire, pregherà la letargia.
(i meno stanchi notarono il dissonante pungolo.)

Esisteva la poesia degli ampollosi versi
e la chiamavamo lirismo.
Esistevo nella poesia delle immagini
e mi chiamava. Vita

era Rosario e la traccia dei punti
di congiunzione tra la fronte e il sonno
nella guarigione semovente
dell’Orsa Minore. Lei di notte mi spiega
che i rugli e i bruiti sono tropo retorici
per essere contemporanei.

Allora ho scritto qualcosa di
contemporaneo al mio deliquio. Ho afflitto
i piedi, la dentina, gl’inconsutili versi che ora
-così morendo- sembrano sensati.

“Non trovo panchine in cui calciare
l’addio, sedute verdi per sfumarti.
Va’ in guerra! Sii in esilio!
Sposa una donna il sei agosto domani,
dipingi ossessione gli altri dolori,
altri carnali odori.
Pagami almeno questo caffè”

E in questa abbondanza di ragione
che m’affama –sono io il pazzo
che tu chiami pazzo. Il Signore è
il canto dell’allodola – feroce!
m’accontenterei perfino
d’una poesia felice.

Così accade che l’impensato
diventi racconto: “è pronto.”
Che pasto consumato
che t’ho dato da mangiare!

Lo sai bene che la gazza ladra
non ruba e suo padre invece
l’ha tradito. A giochi conclusi
siamo tutti fili dell’uguale ordito,
intrecciati tutti per essere confusi.

A quell’uomo abbracciato
al cavalcavia domanderei qual è
il vero miracolo: sentire il primo tuono
o assistere all’atto estremo
di questo suo spettacolo.

Così accade che l’impensato
diventi resoconto: “l’ho lasciato
raffreddare, m’ero parso solo, amore.
Nella tua scollatura, il mio capezzale.”

A quell’uomo abbracciato
al cavalcavia avrei domandato per chi è
il vero inferno: per chi diventa asfalto
o chi rivive, nel vuoto, quel salto.

Seduta all’angolo dei letti di sera
ho sperato l’incalzare dei battiti,
toc-toc di tutti i miei ospiti
ma soffocante non avevo più posto.
Ho preferito allora morire
che continuare a pensarmi mortale:
se solo potessi rivivere
e perdonarmi, oh amore, ed amare.

 
Scoperta.

Parlo all’uomo sfocato
che ombra vive al lume della mia candela
che d’amore accesi alla vita
e d’amore sta perdendo drittura.
I beati santi latori di chiarore
hanno svelato al mio sonno
i tuoi sacrifici di me vittima.
Tradimento! Ma poi accarezzi l’agnello
che sanguina dagli occhi
il dolore della cera sciolta,
di quella candela che spegnendosi
piano ti spegne.
Incauto amore, non potrò più camminare
con collo elegante
di fiduciosa aria.
Mia moglie

Trascini il velo delle tue nozze
davanti a un Dio che non temi il giudizio.
Il peso della nostra terra sommersa
solo si sospenderà nelle acque
dei tuoi affanni.
Non dovrai chiedere perdono a nessuno,
nemmeno a chi hai portato per mano
davanti a un crocifisso di euforia
negano che ai chiodi ci fossero leggerezze.
Blasfema risata ritinteggiata di dolore
è il rumore del tuo sguardo,
che ha confuso la parola
non ingannando l’intuìto,
cui soltanto è rimasta 
la soddisfazione tarda
d’un sepolcro affollato.
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Ph Martina Rossi
E’ giunta in noi la più consumata delle siccità e mi costringi ora ad ascoltare –crosta le divampanti parole di paglia “all’acqua, all’acqua!” sollevare il tuo petto. Estirperò le mie radici queste legnose verruche dal tuo seminterrato.
Chi altro può tra me e te farlo se loro non hanno più sete
e tu le hai rese presuntuose afferrandoti impunite.
Contadino fioraio ortolano fruttivendolo m’hai seminata e rigoglita d’acqua quando t’ho detto non posso nascere nell’errato ciclo dei sette anni di magra per sette tuoi anni di cordoglio.
L’erba cattiva si disvela più cattiva quando tenti di non morirla.
Non voglio nutrirmi dalla tua terra
tu
diserbante infante di vita di bontà eretto contro ogni mia resistenza m’hai tolto tutta la sete. Non accadrà mai d’essere il tuo ciliegio mai tu potrai la mia collina. Non m’amerò diversa dalla gramigna, la gramigna m’è stato l’unico modo d’esisterci.

 
Ti prego di non attraversarmi
più col noi
per riferirti a me 
                             e a te.

 
Necessito di ristabilire
ordine
fra i pronomi.
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Epitaffi.
O "Sul libro degli addii lesinati"
O anche "di tutte le volte che lo spirito s'affievola"
Definitivamente perduta, trova
il suo frenocomio tra questi cancelli
accontentandovi.
Era una pazza.

 
Prematuramente addolora
chi non potrà più guardarla fare.
Si comportava come una bambina.
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Ph Martina Rossi
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Porta via con sé i feti
della discordia di cui gravida
è additata a ogni lite.
Era una donna isterica.
             (cos’altro potrebbe mai essere
             questa, nella forma della parola antica,
             che è una sineddoche?)

 
Sbatteva a volte il portone
del palazzo con troppo vigore,
e la voce stridula era 
di villano alterco col suo addomesticatore.
Non era una gran signora.
Chi tartaglia i tempi del sonno
–i battiti del discorso notturno?
Chi srotola le mie dita ansanti
dagli avviluppamenti della carta
scendendo i pensieri dalle pareti?
E’ una notte d’agosto
che dura la tua assenza:
giorni di luna –non vedo che lampioni dalla finestra!
stancano i maremoti.
Se dovessi venirmi in un sogno settembrino
riportaci agli anni in cui, numerose fughe,
abbiamo ricamato le strade
di rumoroso couru portoghese
per fare dei discorsi seri alla notte.
"Notti novelle, salve notti di mutamento
soffitta segreta degli amanti
voi che custodite bauli di rimostranze
sedete comoda la luce solitaria di noi finestrelle."
In verità laggiù -voi pavimento- vi calpesterete:
è stata la vostra confidenza.
Non so più attraversare la pelle,
siamo tutti morti qualche mese fa:
un cimitero promiscuo di cani
senza guaito: accondiscendere selvaggio.
E se, coautore del sogno, t’accorgessi
che ho gli occhi stanchi e il cuore debolmente sta,
scuotimi annegami schiaffeggiami calpestami urlami
tremami afferrami
o semplicemente
sdraiami.
Per quanto si può vivere
con gli occhi madidi e roranti?
I dotti non son poi così dotti nelle razioni:
vuoi fare la tua doccia in questi fiotti,
queste alluvioni?
E se ti avessi incontrato per incontrare,
in quest’offerta di versi spezzati
sopra l’altare della Poesia,
l’uomo della mia eucaristia?
Corpo nel corpo
avrò sudato la morte,
sangue nel sangue
saremo l’ultima sorte.
Novizia sono nel mio atto di fede
a quattro religioni o cinque o sei
profane dolgono le mie ginocchia
nella preghiera all’amore,
cercando nell’intimo rosario
l’ultimo grano che assolva il mio cuore.
San Silvestro

Dieci,nove, otto
I primi sbadigli di un nuovo anno
già assonnato di promesse
con le gambe più corte di uno spergiuro

sette, sei, cinque
tanti spropositi con l’audacia del poi,
buoni propositi col senno del povero
che non si stanca di aspettare

quattro, tre, due.
Avevo immaginato un vivere di piume e
                                      ispirazione,
e non la disperazione imbellettata
                                      di necessità
quando potevi scegliere di scegliermi
e invece hai contato le pecore
pur di addormentarti.

Uno…
Con le carte in mano non abbiamo
mica costruito una casa: non sono solidi
i fianchi del fante di fiori.
Solo i bambini lo sanno,
che giocare è il canto
a due voci dell’equilibrio.

brindisi, musica
Luci rosse illuminano piedi che ballano
scalzi, le scarpe raccolgono ragnatele
di case altrui, agli angoli della fiducia.

abbracci
ti stringo forte, sto per andare
ad un’altra festa, ma nella mia testa
ho ricominciato a contare.
E se ogni giorno devi chiederti
come sei caduto così in basso
prometto di non farmi seppellire
e riservarti, a buon tempo, il contrappasso.
Al%20mercato%20di%20Kazimierz%0A%0ADa%20

Al mercato di Kazimierz

​

Da subito tocchi quest’ordinato
stagno di medaglie al valore
e arriva alla mano la successiva indagine
dei francobolli del 1934, del 1937,
millenovecentoquarantadue
e il timbro postale con la stella a sei punte
che premi nell’aria –hai ragione a voler
spedire subito ora questa passeggiata
numismatica, filatelica.
Nei casotti di ferro alto –non sembrano d’ogni paese
dodici menorah in fila, lo hai toccato
sin dal primo braccio questo dodecale incendio.
Lo vedo che nella mano hai una Cnopm
sovietica del quaranta, so già che la porteremo via.
E ora che m’accarezzi la guancia fredda
e quando dopo afferrerai il mento
ora che dunque mi tieni la mano
mi fondi col ferro e l’ottone
le unghie sono di carta incarnite.
E non temo d’essere accresciuta
mentre porti su di me la tua esperienza
al mercato di Kazimierz.

M' alzo la mattina alle nove
e, in breve, breve m’abbasso
per il greve mancato assalto
all’insonne distacco.

 
(a mio padre)

Verrà il giorno per cantarci
con strilla di falco coda di pavone
perché segreti assorti luce negli occhi
sono stati la via del nostro amore.
Alla tua costola sono attaccati
tutti i miei peccati senza ch’altre
tue ossa l’abbiano mai saputi.
Generati figli, solo tali si morirà,
e io ti ho generato padre così che
nelle tue braccia ci sia il perdono originale
e risorgeremo insieme.
Ci bagnerà l’Eunoè e dal tuo Eden,
principio d’ogni mia credenza,
inizi la danza dei germogli:
è già stato il tempo di tiepida terra
ch’ha dato acqua alla mia natura
aspettando tiepido il tempo
                                   della mietitura?
Non lo so, lo domando a chi ha vinto
la guerra e non ha visto fieri steli
dei gigli, i frutti dei figli.
Quante volte ho fumato quella pipa
poggiata sulla mensola dei miei ricordi:
in quei gesti vissuti a occhi chiusi
ho disegnato l’eterno mio essere te.

A casa mia la morte prima di tutto
(a mia madre)

Ho sentito ricordo mai straniero
che la Morte è intanto un soffione,
un dente di leone d’un fiore già sfiorito
che imbatuffola la mente,
un graffio al pensiero, uno schiaffo sulle orecchie.

Ho scritto avvilendo l’etopea
che la morte è una gran delusione:
aspettavi la guerra, una pelle di ferro,
la trincea in cucina, e invece è sopraggiunta
patetica simpatica di plastica psicotica
l’allitterazione della pietà.


E se anche fossi il più audace dei viventi
nel dedalo di ricordi mureresti
la morte come prima scordanza:
quando aprono le porte fra le cosce
se sapessi già parlare diresti certamente
“adesso siamo uniti da un conto alla rovescia.”
Ma al dieci-nove-otto solo allora
il miocardio riprende quel primo discorso.

E se anche fossi il più debito dei tempi,
e non lo sono, solo ora so scoprire
quanto significa un minuto
accarezzando la tua testa d’autunno
mentre ti guardo con un sorriso a brandelli:
un minuto soppesa fra le mani l’eterno
al peso di sessanta capelli.

C’ha condannati alla vita il ricordo ospedaliero
e ci rivelo ora, che questo scritto è finito,
che la parole tumore
non era granché cerimoniosa
e la Signora invece accompagna
precedendo seguendo essendo,
quei rivoli di pazzia sul pavimento del bagno
mica perdendo sospiri d’inchino ed ossequio.

 

A casa mia la morte prima di tutto
s’era fatta padrona della mia poesia,
servente io di confusi appellativi.
Ma cosciente d’un tratto, ho detto alla penna
“che scrivi impaurita? Non si seppelliscono
i vivi.”

© 2020 by Alessia Cusenza. Proudly created with Wix.com

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